mercoledì 3 luglio 2013

Prometeo un mito attarversa la cultura dell' occidente

 di   Federico Cussotto



Il mito di Prometeo è tra i più famosi ed intramontabili che la grecità abbia prodotto: a partire dalla propria nascita ha attraversato tutta la cultura, la letteratura e la filosofia occidentali ispirando in ogni epoca nuove ed originali interpretazioni, al pari di Ulisse e di Edipo. Pur non avendo la possibilità, dato lo spazio ristretto di una tesina, di esaminare tutte le tappe di tale percorso, intendo trattare brevemente sette di esse che ho selezionato tra quelle che ho ritenuto più interessanti e significative.
Il motivo del successo del mito prometeico è a mio avviso semplice, ed è precisamente la ragione che mi ha spinto a farne l’argomento della mia tesina: esso cerca di fornire una spiegazione ad uno dei misteri più appassionanti che si possano concepire, e cioè quello sull’origine della civiltà umana. Se il genoma di uno qualunque di noi è uguale al 98% a quello di uno scimpanzé, perché siamo apparentemente così diversi dai nostri cugini evolutivi? Possibile che quel 2% di codice genetico basti a giustificare una tale differenza? Cosa ha permesso all’uomo di dare vita a ciò che comunemente definiamo “civiltà”? L’intelligenza? Ma cos’è in realtà ciò che chiamiamo “intelligenza”?
Inizierò la mia trattazione con una brevissima introduzione circa le origini del mito, per poi passare alla sue prime attestazioni letterarie, quelle nei poemi esiodei della Teogonia e delle Opere e giorni, nei quali esso ha una valenza didascalica di condanna dell’empietà. Nel Prometeo incatenato di Eschilo il fuoco simboleggia l’ingegno, l’intelligenza, rivoluzionando così il significato dell’intero personaggio. Nel Medioevo Boccaccio interpreta allegoricamente la figura del Titano come emblema del sapiente che si dedica alla ricerca della verità, visione che venne ereditata dalla maggior parte dei filosofi rinascimentali. Rousseau condanna il progresso tecnico e scientifico dell’umanità, e di conseguenza anche Prometeo, considerato come suo simbolo. I Romantici mettono l’accento sulla ribellione del Titano, un aspetto che non era stato evidenziato in precedenza, e fanno di lui il loro eroe-simbolo; Shelley, nel suo dramma lirico Prometheus Unbound, ritrae un Prometeo vittorioso su Zeus, proponendo un finale alternativo per la tragedia eschilea. Nietzsche, nella Nascita della tragedia, interpreta in maniera non ortodossa il Prometeo incatenato ed instaura un confronto tra il furto del fuoco ed il peccato originale della Genesi. André Gide, nel racconto Prométhée mal enchaîné, opera una deformazione parodistica del mito finalizzata ad introdurre un concetto fondamentale nella propria produzione letteraria futura, cioè quello dell’action absolument gratuite.




INTRODUZIONE

Prometeo è, nella mitologia greca, un Titano figlio di Giapeto, che si rende responsabile di un atto di ribellione al volere di Zeus rubando il fuoco agli dei per donarlo agli uomini. Per questo il signore degli dei lo punisce incatenandolo e facendolo tormentare da un aquila che gli divora il fegato, finché Eracle non lo libera dal supplizio con il consenso di Zeus. Questo è a grandi linee il nucleo essenziale della vicenda, che si prestò a infinite variazioni sia nell’antichità che nell’epoca moderna. Una di queste variazioni, la cui prima attestazione si trova nella Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro, attribuisce al Titano la creazione stessa dell’uomo, che sarebbe stato modellato nell’argilla e poi animato grazie all’aiuto di Atena.
Le origini della figura mitologica di Prometeo restano avvolte nell’oscurità. Gaston Bachelard considerava i miti come frutto di un pensiero prescientifico ansioso di dare spiegazioni ai fenomeni incomprensibili, e quindi attribuiva loro una funzione essenzialmente eziologica. In questa prospettiva il mito prometeico va annoverato tra i più antichi ed universali, poiché miti equivalenti sull’origine del fuoco si trovano nelle culture della maggior parte dei popoli antichi. Salomon Reinach sostenne, basandosi sul confronto con leggende bretoni e normanne, che l’autore del furto del fuoco dovesse originariamente essere un animale, alleato dell’uomo; nei greci l’aquila che divora il fegato di Prometeo sarebbe un residuo di queste precedenti tradizioni zoolatriche.
Riguardo all’etimologia del nome, due sono le ipotesi più accreditate. La prima fa riferimento alla parola sanscrita pramantha, a suo volta collegata al verbo manthani (sfregare). Tale termine indica uno dei due bastoncini utilizzati per accendere il fuoco con la tecnica dello sfregamento, per la precisione quello che viene fatto ruotare freneticamente all’interno di un foro praticato sull’altro bastoncino, detto arani. La seconda ipotesi fa derivare il nome da πρό (prima) + μανθάνω (apprendere), a sua volta riconducibile alla radice indo-europea man-dh (prevedere); Prometeo significherebbe dunque “il previdente”. Sulla base di questa etimologia si venne a formare la coppia antitetica dei due fratelli Prometeo ed Epimeteo (“lo sprovveduto”). Non è da escludersi che i Greci abbiano sovrapposto la seconda etimologia alla prima.


ESIODO: LA PRIMA ATTESTAZIONE LETTERARIA

Esiodo ci narra due versioni complementari del mito di Prometeo, una nella Teogonia (vv. 507-616) e l’altra nelle Opere e giorni (vv. 42-105), entrambe riportate di seguito in traduzione italiana.
Teogonia, 507-616

Sposò Giapèto un'Ocèanina, Climène, fanciulla dal bel malleolo, seco salì nel medesimo letto. E quella generò Atlante dal valido senno, poi generò Menezio coperto di gloria, e l'accorto Promèteo scaltro, ed Epimetèo mentecatto, che prima causa del male fu per quanti manducarono pane: ch'egli accettò da Giove la vergine sculta nel fango. Poi, Giove onniveggente, nell'Erebo spinse Menezio il tracotante, su lui scagliando il suo fumido strale, per l'arroganza sua, pel grande soperchio di forze. Per duro fato Atlante sostiene l'amplissimo cielo, presso all'Espèridi, voci soavi, al confin della terra: ritto col capo lo regge, con l'infaticabili mani: tale destino per lui stabilì l'assennato Croníde. E d'infrangibili ceppi dogliosi avvinghiò Prometeo, mente sottile, a metà d'una stele, e a lui sopra sospinse l'aquila, il rapido augello, che il fegato ognor gli sbranava; e il fegato immortale via via tutto attorno cresceva, la notte, quanto il giorno sbranato ne aveva l'augello. Ma infine al mostro alato die' morte il figliuolo d'Alcmena, il prode Ercole, e franco mandò da quel morbo funesto il figlio di Giapèto, lo sciolse dai gravi cordogli: non già contro il volere di Giove signore d'Olimpo: questi anzi volle che sopra la terra, maggiore di prima d'Ercole volle fosse la gloria, del figlio di Tebe. Dunque onorò, per questo riguardo, l'illustre figliuolo, l'ira frenò, per quanto crucciato, che prima lo ardeva contro Promèteo, che aveva con lui gareggiato in astuzia. Perché, quando a Mecone contesero gli uomini e i Numi, un gran bove offerì Promèteo, con subdola mente, e lo spartì, traendo la mente di Giove in inganno. Perché le carni tutte, l'entragne con l'adipe grasso depose entro la pelle, coperte col ventre del bove, e a lui le candide ossa spolpate, con arte di frode, offrì, disposte a modo, nascoste nel lucido omento. "O di Giapeto figlio, famoso fra gli uomini tutti, quanto divario c'è, tra le parti che hai fatte, mio caro!" Così Giove, l'eterno consiglio, crucciato gli disse. E gli rispose così Promèteo, lo scaltro pensiero, dolce ridendo, né fu dell'arti di frode oblioso: "Illustre Giove, sommo fra i Numi che vivono eterni, scegli quello che più ti dice di scegliere il cuore". Disse, tramando l'inganno; ma Giove, l'eterno consiglio, bene avvisata la frode, ché non gli sfuggì, nel suo cuore sciagure meditò contro gli uomini; e furon compiute.
Il bianco adipe, dunque, levò con entrambe le mani, e si crucciò nel cuore, di bile avvampò, quando l'ossa
del bue candide scorse, composte con arte di frode. Di qui l'usanza venne che sopra gli altari fragranti
bruciano l'ossa bianche dei bovi i mortali ai Celesti. E nel suo cruccio, Giove che i nugoli aduna, gli disse:
"O di Giapèto figlio, che sei d'ogni cosa maestro, dunque obliata non hai, caro amico, la tua frodolenza".
Così, crucciato, il Dio dagli eterni consigli diceva; e da quel giorno, mai non dimenticando la frode, agli uomini tapini che vivono sopra la terra, nati a morire, la forza negò dell'indomito fuoco. Ma l'ingannò di Giapèto l'accorto figliuolo, e la vampa che lunge brilla, a lui furò dell'indomito fuoco, entro una ferula cava. Nel mezzo del cuore fu morso Giove che freme dall'alto, di bile fu pieno il suo cuore, come fra gli uomini vide la vampa che fulge lontano; e un male, a trar vendetta del fuoco, creò pei mortali. Un simulacro plasmò con la terra l'insigne Ambidestro, simile ad una fanciulla pudica: lo volle il Croníde. La cinse e l'adornò la Diva occhiglauca Atèna, con una candida veste, sul capo le pose una mitra istorïata con le sue mani, stupenda a vederla, e su la fronte corone le pose Pàllade Atèna di fiori, appena appena spiccati dall'erba fiorente. E d'oro un dïadema le cinse d'intorno alla fronte, che avea per lei foggiato l'artefice insigne ambidestro, con le sue proprie mani, per far cosa grata al Croníde. In esso molte fiere scolpite con arte stupenda erano, molte, quante ne nutrono il mare e la terra: tante scolpite ne aveva, fulgendone somma bellezza, meravigliosa; e tutte sembrava che avessero voce. Poscia, com'ebbe scolpito quel bello ma tristo malanno, addusse ov'eran gli altri Celesti e i mortali la donna, tutta dei fregi ornata d'Atèna dagli occhi azzurrini. E meraviglia colse le genti mortali ed i Numi, quando l'eccelsa frode funesta agli umani fu vista. Da questa derivò delle tenere donne la stirpe, la razza derivò, la donnesca genia rovinosa, grande iattura, che vive fra gli uomini nati a morire, che della povertà compagne non son, ma del lusso. Come allorché nei loro profondi alveari, le pecchie nutrono i pigri fuchi, compagni d'ogni opera trista: esse l'intero dì, sin che il sole si tuffa nel mare, sinché la luce brilla, riempiono i candidi favi; e, rimanendo i fuchi nel fondo agli ombrosi alveari, mèsse nel ventre fanno di ciò che raccolsero l'altre: similemente, a danno degli uomini, Giove che tuona dal ciel, pose le donne, compagne d'ogni opera trista. E un altro male, invece d'un bene, anche inflisse ai mortali: chi, per fuggire i tanti pensier che le femmine dànno, schiva le nozze, e giunge soletto all'esosa vecchiezza, non ha, seppure nulla gli manca, nessun che l'assista; e quando viene a morte, dividon lontani parenti fra lor la sua sostanza. Chi poi vuol marito il destino, quand'anche abbia una moglie pudica, di mente assennata, col tempo, anche per lui si bilanciano il bene ed il male. Ma quello che s'imbatte con una di trista genia, nutre, per tutta quanta la vita, una smania nel seno, nell'animo, nel cuore, rimedio non c'è del suo male. Né trasgredire si può, né frustrare il volere di Giove. Neanche Prometeo, di Giapeto il benefico figlio, all'implacato suo sdegno sfuggì: con fatale potenza immani ceppi lui costrinsero; e tanto era scaltro.[1]

Opere e giorni, 42-105

Gli dei infatti tengon nascosto agli uomini il sostentamento, ché facilmente, allora, potresti lavorare un solo giorno e per un anno ne avresti, anche restando nell'ozio, presto il timone lo potresti appendere sul fumo
e sarebbe finito il lavoro dei buoi e dei muli pazienti; ma Zeus lo nascose adirato dentro il suo cuore. Perché Prometeo dagli astuti pensieri lo aveva ingannato, per questo meditò agli uomini tristi sciagure: nascose il fuoco; ma ancora di Giapeto il figlio valente lo rubò per gli uomini a Zeus dai saggi consigli di nascosto a Zeus fulminatore, in una ferula cava. A lui Zeus che aduna le nuvole disse adirato: "O figlio di Giapeto, tu che fra tutti nutri i pensieri più accorti, tu godi del fuoco rubato e di avermi ingannato, ma a te un gran male verrà, e anche agli uomini futuri: io a loro, in cambio del fuoco, darò un male, e di quello tutti nel cuore si compiaceranno, il loro male circondando d'amore". Così disse e rise il padre di uomini e dei: a Efesto illustre ordinò poi che, veloce, intridesse terra con acqua, vi ponesse dentro voce umana e vigore e, somigliante alle dee immortali nell'aspetto, formasse bella e amabile figura di vergine; poi ad Atena che le insegnasse i lavori: a tesser la tela dai molti ornamenti, e che grazia intorno alla fronte le effondesse l'aurea Afrodite e desiderio tremendo e le cure che rompon le membra; che le ispirasse un sentire impudente e un'indole scaltra ordinò ad Ermete, il messaggero Argifonte. Così disse, e quelli obbedirono a Zeus Cronide signore; allora di terra formò l'illustre Zoppo un'immagine simile a vergine casta, secondo la volontà del Cronide; la cinse e l'adornò la dea glaucopide Atena, attorno le dee Grazie e Persuasione signora le posero auree collane, attorno a lei le Ore dalle belle chiome intrecciaron collane di fiori di primavera; ed ogni ornamento al suo corpo adattò Pallade Atena. Dentro al suo petto infine il messaggero Argifonte menzogne e discorsi ingannevoli e scaltri costumi pose, come voleva Zeus che tuona profondo, e dentro la voce le pose l'araldo di dei e chiamò questa donna Pandora, perché tutti gli abitatori delle case d'Olimpo la diedero come dono, pena per gli uomini che mangiano pane. Poi, dopo che l'inganno difficile e senza scampo ebbe compiuto, ad Epimeteo il padre mandò l'illustre Argifonte, araldo veloce, a portare il dono degli dei; ed Epimeteo non volle porre mente, come a lui Prometeo diceva, a non accogliere mai dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo indietro, che qualche male non dovesse venire ai mortali: però solo dopo che l'ebbe accolto, quando subì la disgrazia, capì. Prima infatti sopra la terra la stirpe degli uomini viveva lontano e al riparo dal male, e lontano dall'aspra fatica, da malattie dolorose che agli uomini portan la morte - veloci infatti invecchiano i mortali nel male -. Ma la donna, levando con la sua mano dall'orcio il grande coperchio, li disperse, e agli uomini procurò i mali che causano pianto. Solo Speranza, come in una casa indistruttibile, dentro all'orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell'orcio per volere di Zeus egioco che aduna le nubi. E infinite tristezze vagano fra gli uomini e piena è la terra di mali, pieno n'è il mare; i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte da soli si aggirano, ai mortali mali portando, in silenzio, perché della voce li privò il saggio Zeus. Così non è possibile ingannare la mente di Zeus.[2]
Nella Teogonia la vicenda del furto del fuoco costituisce una digressione narrativa, collocata dopo una rapida descrizione della famiglia di Prometeo: egli è figlio di Giapeto, fratello di Crono, e dell’Oceanina Climene; tre sono i suoi fratelli: Menezio, Atlante ed Epimeteo. L’episodio si apre con una prolessi che anticipa la punizione del Titano e la sua liberazione, per poi tornare indietro nel tempo a raccontare quale fu la causa del castigo: la prima disputa tra Prometeo e Zeus si verifica a Mecone allorquando, dividendo le carni di un toro sacrificato, il Titano con un astuto inganno fa in modo di destinare al signore degli dei solo le ossa, lasciando agli uomini le parti migliori dell’animale. Per rappresaglia allora Zeus sottrae il fuoco agli uomini (che dunque lo possedevano già). Al furto del fuoco segue quindi una nuova e più spietata vendetta verso il genere umano: Zeus ordina a Efesto di fabbricare con l’argilla la prima donna, la quale riceve poi da Atena una serie di doni volti a renderla attraente e viene mandata sulla terra per arrecare noie e sciagure agli uomini. La digressione si chiude, secondo Ringkomposition, con un rievocazione della pena inflitta al Titano.
Il brano dalle Opere e giorni risponde ad un’esigenza eziologica: spiegare la necessità del lavoro per l’uomo e la presenza dei mali (come la fame, il freddo, la fatica, la povertà, la malattia, ecc…) nel mondo. Esse vengono ricondotte alla fanciulla modellata da Efesto, di cui Esiodo ora ci dice il nome, Pandora, e di cui ci fornisce una descrizione più dettagliata; tutti gli dei contribuiscono a rifinirla e a conferirle caratteristiche che la renderanno perniciosa per gli uomini, da cui il nome, che per Esiodo significa “dono di tutti gli dei”. La femme fatale così creata viene spedita in dono allo stolto Epimeteo, che ingenuamente la accoglie, dimenticando il saggio ammonimento del fratello a non accettare regali da parte degli dei. Pandora scoperchia il vaso nel quale erano rinchiusi tutti i mali dell’umanità, i quali si spargono nel mondo, ponendo fine alla condizione edenica in cui viveva il genere umano fino ad allora. Solo Ἐλπίς resta, per volere di Zeus, chiusa dentro il vaso. Tale termine in questo contesto non ha probabilmente il significato positivo di “speranza”, ma quello neutro di “aspettativa”, che include un aspetto “epimeteico” (impedisce di prevedere le disgrazie e di evitarle) ed uno “prometeico” (induce a sperare in un futuro migliore e a lavorare per ottenerlo).
Nelle versioni del mito forniteci da Esiodo Prometeo appare come un benefattore maldestro che, pur animato da buone intenzioni, finisce per causare la caduta del genere umano dall’originaria condizione di beatitudine, ed  in questo aspetto è accostabile al Satana della Genesi. La sua sconfitta è totale e senza appello. L’unico insegnamento che si può trarre dalla sua vicenda è quello esplicitato dallo stesso Esiodo: “Né trasgredire si può, né frustrare il volere di Giove” (Teogonia, 613) e “Così non è possibile ingannare la mente di Zeus” (Opere e giorni, 105). E’ da notare che in Esiodo il fuoco non riveste ancora alcuno dei significati simbolici che acquisterà in seguito.



IL PROMETEO INCATENATO DI ESCHILO

Circa tre secoli dopo Esiodo troviamo la prima opera letteraria interamente dedicata al mito: il Prometeo incatenato di Eschilo, di datazione incerta, compresa probabilmente tra il 467 e il 458. Le due tragedie che dovevano completare la trilogia sono andate perdute, ma ne conosciamo i titoli: Prometeo liberato e Prometeo portatore del fuoco.
Nel prologo vediamo Prometeo, scortato da Κράτος (Potere) e Βία (Forza), che per ordine di Zeus viene incatenato da Efesto sulle montagne della Scizia. Nella parodo, dal dialogo lirico tra il Titano ed il Coro delle Oceanine, emerge già un nuovo e fondamentale dettaglio rispetto alla versione esiodea: Prometeo è a conoscenza di un segreto vitale per Zeus, egli sa il nome di colui che è destinato dal Fato a detronizzare il signore degli dei. Riporto le parole esatte di Prometeo (vv.172-182):
Di me, sì, di me - di quest'infamia vivente coi polsi nei ceppi di ferro - avrà urgenza il sovrano celeste: che gli spieghi il nuovo tranello, la mano decisa a razziargli corona e potere. Dolci scongiuri a incantarmi, fascini. a farmi dire di sì: nulla potranno. Né mai mi fletto all'aspra minaccia. Non chiarirò il segreto, se prima non snoda i disumani ceppi, e consente a pagarmi il riscatto d'osceno martirio.[3]



Nel primo episodio Prometeo narra al coro come egli, nella guerra tra Titani e Cronidi, abbia combattuto per i secondi (e quindi per Zeus) cercando di portare anche i fratelli dalla propria parte, ma senza successo. Tuttavia, dopo la vittoria, il signore degli dei era deciso, per capriccio, a sterminare gli uomini e Prometeo, unico fra gli dei, ebbe il coraggio di opporglisi, cosa che gli meritò l’atroce castigo che ora subisce. Lo scopo è quello di sottolineare l’ingratitudine di Zeus ed enfatizzare il drammatico contrasto tra la condizione privilegiata di cui avrebbe potuto godere il Titano e quella attuale e misera in cui è sprofondato. Dopo Prometeo precisa di aver fatto due doni fondamentali al genere umano: non solo il fuoco, ma anche e soprattutto le τυφλαὶ ἐλπίδες (v.248), le “cieche speranze”, che permettono ad ogni uomo di dimenticare quanto breve e caduca sia la propria vita e di impegnarsi così in opere che trascendono la propria esistenza personale. Riporto i versi 245-253:
PROMETEO    Era fisso, sbarrato all'ora fatale l'occhio dell'uomo: io lo distolsi.
CORO                         Che medicina inventasti a questa piaga?
PROMETEO    Opaco sperare: l'ho fatto colono dei cuori.
CORO                         Regalo grande hai donato ai viventi.
PROMETEO    Non basta: io, ho fatto loro compagna la fiamma.
CORO                         E ora ha il lampo del fuoco chi tramonta col giorno?
PROMETEO    Una fonte, da trarne la scienza di molti mestieri.[4]

Segue l’entrata in scena di Oceano, animato da pietà verso il Titano sofferente ed intenzionato ad intercedere per lui presso Zeus, ma Prometeo lo dissuade da un tale proposito. Nel secondo episodio narra al coro di aver fatto molti altri doni agli uomini: ha insegnato loro l’astronomia, la matematica, la scrittura, l’allevamento degli animali, la navigazione, la farmacopea e l’arte divinatoria. Nel terzo episodio entra in scena la vergine Io, perseguitata da Era perché amata da Zeus. Prometeo le predice quali saranno le tappe future del suo interminabile vagabondare per il mondo, provocando in lei una disperazione incontenibile. Inoltre rivela qualcosa di più al coro circa il segreto che custodisce gelosamente: da una delle tante unioni di Zeus nascerà un figlio che detronizzerà il padre, così come Zeus aveva detronizzato Crono. Questo potrà essere evitato solo se Prometeo rivelerà il nome della dea o della donna in questione, cosa che ovviamente non  ha intenzione di fare.
L’esodo è, secondo la mia opinione, la sezione più significativa dell’intera tragedia per la profonda impressione che eserciterà dopo secoli sui romantici; ne riporto quindi un’ampia parte (vv.942-1093)
PROMETEO    […] Là! Chi vedo. Lui, il corridore di Zeus, braccio destro del despota, appena arrivato.                            Senz'altro è qui a riferire fresche notizie.
ERMES           Ehi, pozzo di scienza, testardo intestardito, l'hai fatta grossa agli dèi: passare i poteri a chi             tramonta in un giorno! Ladro di fuoco, dico a te. Zeus padre comanda: indica di che nozze ti                    glori, per mano di chi deve cadere il suo impero. E aggiunge: senza giri viziosi, ma svelando                  fatto per fatto. Non infliggermi doppio cammino, Prometeo. Non è modo, lo vedi, per fare                    più morbido Zeus.
PROMETEO    Discorso sublime, davvero. Si sente, mente superba, la tua: da sgherro di dèi. Siete di oggi.                        Di oggi è il vostro dominio: illusi di vivere in torri sbarrate all'angoscia. Non sono già due i                        sovrani piombati dall'alto? Coi miei occhi li ho visti. Un lampo, e vedrò anche il terzo, quello                   che è ora monarca: più umiliato che mai. Rabbrividire, io, acquattarmi di fronte a quei                            giovani dèi? Ti par proprio? Ne manca, anzi,        non sarà mai. Tu riprendi la tua strada,                                  spicciati: da me non udrai parola, di quello che chiedi.
ERMES           Già una volta, per amore caparbio di te, t'incagliasti tra questi tormenti.
PROMETEO    Il tuo stare a servizio, il mio sacrificio: non farei cambio mai, imparalo bene.
ERMES           Già, meglio il servizio a questa tua roccia, che esser portavoce docile di Zeus padre,                                  immagino.
PROMETEO    Peccatori superbi così peccano, superbamente!
ERMES           Ti scaldi, mi pare, al pensiero di quello che sei.
PROMETEO    Io, scaldarmi? Vedessi caldo così chi mi odia. Nel numero metto anche te.
ERMES           Io? Addossi anche a me la disgrazia che soffri?
PROMETEO    Semplice. Sono carico d'odio contro gli dei, tutti. Gente che mi deve favori e invece,                                 tradendo, m'offende.
ERMES           Sento che ormai deliri: una febbre non passeggera.
PROMETEO    Febbre, delirio? Se è delirio esecrare chi t'odia.
ERMES           Impossibile reggerti, se fossi tu il fortunato.
PROMETEO    Aaah, che miseria!
ERMES           Ecco parola che Zeus neppure conosce.
PROMETEO    Il tempo, quel vecchio perenne, insegna di tutto, alla fine.
ERMES           Tu ancora però non conosci equilibrio di mente.
PROMETEO    Purtroppo: non starei a parlare con te, sgherro.
ERMES           Nulla hai da dire, vedo, alle richieste del Padre.
PROMETEO    Al contrario. Che gli sono obbligato, e vorrei ricambiarlo.
ERMES           Ti beffi. Per bimbo immaturo m'hai preso.
PROMETEO    Peggio. Peggio di un bimbo immaturo, più demente, se t'illudi di cavarmi parola di bocca.              Zeus non possiede né infamia, né scaltra tortura, da piegarmi a svelare le cose: prima deve                    farmi cadere di dosso l'offesa dei nodi. Che risponda sferrando vampa infuocata. Sfasci, agiti                  il cosmo con piume lucenti di neve, coi boati d'abisso. Nulla mi farà inginocchiare, a                              svelargli la mano capace di gettarlo giù dall'impero.
ERMES           Pensa bene, se è il modo di porti al riparo.
PROMETEO    È un pezzo che penso. Ho deciso: va bene così.
ERMES           Coraggio, cieco che sei! Abbi coraggio, una volta, di riflettere a mente serena sul tuo                                 soffrire.
PROMETEO    Cieco tu. M'angosci. Ma è come parlassi alla risacca del mare. Non ti venga pensiero che il                        progetto di Zeus mi spaventi, mi riduca ad aver cuore di donna. È lui tutto il mio odio vivo.                      Non avrà mai la mia supplica - donnetta, diresti di me, le mani curve, protese - che mi salvi                  da queste catene: tempo eterno, c'è in mezzo.
ERMES           Parlo, mi ostino. Ma è sempre parlare alla cieca, vedo. Non ti sciogli, non hai cedimenti,                neppure alle mie insistenze. Sei puledro fresco di stanghe: morsica il ferro, tempesta, fa                            guerra alle briglie. Ma la tua furia è frutto d'ingegno spossato. Puro, nudo amore di sé, in chi                    non gode equilibrio di mente, vale meno che nulla. Puoi anche    non essere vinto dal mio                     ragionare: pensa la raffica, l'enorme ondata di mali pronta all'assalto. Non hai fuga.                    Comincerà così. A boati, a colpi di saetta lucente il Padre ti spacca il tuo precipizio                                   scoglioso. La tua carne sprofonda, ti raccoglie tenaglia di sasso. Sconterai fino in fondo                          vastissimi anni, per riemergere al sole. Allora il segugio volante di Zeus, l'aquila striata di                         sangue, golosa, farà macello di te, cencio smisurato di carne: tu non l'inviti, ma lei scivola                         dentro, al festino, e finché dura la luce fa onore alla mensa, al tuo fegato scuro! Non illuderti,                  non esiste confine al tormento, se prima dai celesti non sorge uno che erediti il tuo sacrificio,               deciso a calarsi sotterra, dove raggio non brilla, nel Tartaro cavo, spento. Pesa i fatti, poi                 scegli. Sta' certo, non è presunzione bugiarda la nostra, è realtà ribadita, fermissima. Lingua                    di Zeus non sa menzogna: ogni parola è spinta al suo fine. Sii prudente, calcola tutto: non                    seguire l'idea che l'amore di sé abbia forza più del chiaro intelletto.
CORO             Per noi, Ermes ragiona come il momento richiede. Ti comanda di deporre l'amor proprio               caparbio, d'esplorare la via del chiaro, pensoso equilibrio. Seguilo: peccare sfregia chi                               possiede ragione.
PROMETEO    M'era già noto da sempre l'annuncio che questa voce scandisce. Se c'è l'odio non è sfregio                        patire da quello che t'odia. Risponda fiondandomi addosso l'affilata voluta di fuoco,                                 s'impenni la volta stellata ai boati, al delirio di folate furenti. Oh, se il vortice schioda il                             pianeta dal perno, con tutto il suo tronco! Se oceano ribolle, roca mugghiante muraglia al              passaggio dei corpi celesti! Sollevi, fiondi la mia carne al Tartaro cupo: morsa massiccia,                         fatale. Non può dare morte totale al mio io!
ERMES           Voci, ragioni d'un cervello sconvolto: sei subito certo, a sentirle. Perfetta frenesia, corda                stridente il suo sogno. Non è folle, caparbio? A voi, ora, che concordi spartite il suo strazio:                      lasciate di volo la vetta, che il rantolo sordo prodigioso del tuono non v'abbagli la mente.
CORO             Muta argomenti. Dimmi ragioni che possa seguire. Il tuo dire dilaga: una piena, senza riparo.                     Allenati a essere vile, mi dici. Perché? Soffro al suo fianco, fino in fondo. Io, scelgo. So               l'odio contro chi è perfido. Non c'è peste che mi disgusti tanto.
ERMES           Bene. V'anticipo tutto: fissatelo in mente. Non bestemmiate Fortuna quando Supplizio vi               avrà nel carniere. Non dite che Zeus v'ha scagliato improvviso castigo. Non Zeus. Voi,                          proprio voi. Coscienti - non come un lampo, di frodo - cadrete nei nodi, rete senza spiraglio                     di Supplizio: causa è la vostra demenza.
PROMETEO    Non è favola, è reale questa terra che vibra. Roco si rifrange il boato - muggito profondo -                        turbine esplode di rovente saetta, nodo di vento mulina la sabbia: sgroppano raffiche                                intreccio di folate rissose scena di soffi che urtano, saldi. Oceano, cielo: un impasto                                  sconvolto. Eccolo, il pugno, da Zeus: è forgia d'angoscia. S'accosta. Risplende! Madre                               adorata. O Cielo che ruoti, diffondi chiarore nel cosmo,
                        contempla il martirio: vìola Giustizia.

La rupe si spacca. Prometeo e le Ninfe sprofondano. Bagliori e boati chiudono il dramma.[5]

L’opera eschilea conferisce al mito una portata religiosa e metafisica decisiva. Innanzitutto, in essa il fuoco si carica di una forte valenza allegorica: esso rappresenta la scintilla dell’intelligenza divina che, instillata in una bestia bruta come l’uomo delle origini, gli permette di dominare la natura e di avviarsi sulla strada della civiltà. Rivelatore in questo senso è il verso 253: la fiamma è “una fonte, da trarne la scienza di molti mestieri”. L’intervento di Prometeo quindi non è deleterio per l’umanità, ma salvifico, in quanto ne impedisce la distruzione ad opera di Zeus. Il modo in cui le figure del Titano ribelle e del re degli dei vengono dipinte è rivoluzionario: Zeus è un tiranno crudele, capriccioso e dispotico, mentre Prometeo ci appare come un martire vittima di un potere ingiusto. Il comportamento del Titano eschileo può essere solo in apparenza etichettato come ὕβρις, che era il peccato per eccellenza nella religione olimpica, cioè la ribellione contro la divinità, determinata dal μέγα φρονεῖν, ossia l’eccessi presunzione di sé. Se infatti si confronta Prometeo con un qualunque caso di  ὕβρις, emerge chiara una fondamentale differenza. Il tipico ὑβριστής infatti è sempre vittima di Ἄτη, l’accecamento, che lo illude di poter sfidare gli dei impunemente e gli impedisce di vedere il baratro verso cui si avvia con le sue azioni; l’ὑβριστής, in altre parole, è sempre incosciente e la sua tragica caduta giunge completamente inaspettata, provocando un tardivo pentimento. Sono tutte caratteristiche che palesemente mancano al nostro personaggio. La sua ribellione infatti è deliberatamente voluta, nella piena consapevolezza di tutte le conseguenze che essa comporta, e non viene rinnegata neanche dopo la caduta. Nell’esodo egli arriva a persino a rivolgere implicitamente l’accusa di ὕβρις contro lo stesso Zeus: il signore degli dei infatti presume eccessivamente di sé dimenticandosi di essere anch’egli soggetto al Fato e non tiene conto del fatto che potrebbe essere detronizzato, come avvenuto ai suoi predecessori.
Una tale visione negativa di Zeus, ha spinto molti critici a sollevare dei dubbi circa l’attribuzione di questa tragedia ad Eschilo, poeta noto per una profonda fede nel re degli dei considerato come garante della giustizia universale. Il problema tuttavia non sussiste se si tiene a mente che il Prometeo incatenato doveva essere seguito nella trilogia da un Prometeo liberato e da un Prometeo portatore del fuoco. Della prima conosciamo a grandi linee la trama: dopo un supplizio di trentamila anni, Zeus faceva liberare il Titano, che a sua volta rivelava il segreto, rendendo eterno e definitivo il regno di Zeus. Si può ipotizzare che l’ultima tragedia narrasse l’istituzione del culto a Prometeo, segnando la definitiva composizione del conflitto. L’equivoco nasce poiché il Cristianesimo ci ha abituati a concepire un Dio in esse, cioè perfetto ed immutabile per l’eternità. Eschilo invece, essendo greco, considerava le divinità in fieri, cioè soggette a mutamenti e a maturazione, esattamente come gli uomini. Il tiranno del Prometeo incatenato è un dio ancora giovane, incapace di usare saggiamente il proprio potere, e ha sbagliato pretendendo di distruggere l’umanità senza motivo. Lo Zeus del Prometeo liberato doveva essere invece un dio “adulto, assennato, la cui perfezione infine realizzata consiste nella coincidenza tra la sua volontà e la giustizia”[6].



LA GENEALOGIA DEORUM GENTILIUM DI BOCCACCIO

La Genealogia Deorum Gentilium è un’opera di prosa latina in 15 libri sulla mitologia pagana, scritta da Boccaccio a partire dal 1360 sotto la committenza di Ugo IV di Cipro. Fino a due secoli dopo la morte del poeta, era universalmente considerata come la sua opera più importante, mentre gli scritti in volgare erano trascurati. I passi citati di seguito provengono dalla traduzione cinquecentesca di Giuseppe Betussi.
Boccaccio parla di Prometeo nel libro IV. La vicenda del Titano viene così narrata:
Dicono che, havendo Prometheo di fango formato un huomo senza spirito, Minerva si diede maraviglia di così eccellente opra, onde a lui promesse ciò ch’egli volesse tra tutti i beni celesti per dar compimento alla sua opra. Il quale rispondendo che non sapeva che dimandarle se non vedeva quelle cose che appresso gli dei fossero utili, di che da lei fu inalzato in cielo, dove veggendo tutte le cose celesti animate con fiamme (per infondere ancho all’opra sua la fiamma), segretamente porse vicino alle ruote di Phebo una verga, et havendola accesa et rubato il foco il riportò in Terra, aggiungendolo al petto del finto huomo; et così il fece animato, et chiamollo Pandora. Là onde i dei mossi ad ira fecero che Mercurio il legò al Caucaso, et diedero all’avoltoio, overo all’Aquila, il suo core da essere in eterno divorato.[7]

Successivamente fornisce un’interpretazione allegorica molto originale: Prometeo, argomenta il poeta, è un personaggio dalla natura duplice, poiché ha due ruoli fondamentali, cioè quelli di creatore e vivificatore del genere umano. Pertanto Boccaccio distingue due Prometei: il primo, il creatore, è da identificarsi con Dio; il secondo, il ladro di fuoco, rappresenta invece il prototipo dell’uomo sapiente che si dedica alla speculazione filosofica per poi rendere l’umanità partecipe delle scoperte effettuate. Ma qui sorge un problema: perché l’acquisizione di nuove conoscenze dovrebbe essere rappresentata da un furto? Qual è il legame tra due azioni in apparenza così diverse? Boccaccio risponde così:
Veramente ciò non è detto inconvenevolmente, percioché non nei theatri, nelle piazze, né in publico apprendiamo il lume della verità, ma separati nelle solitudini; et ricercato il silentio entriamo in consideratione, et con la continua speculatione ricerchiamo le nature delle cose; et perché queste tai cose si fanno segretamente, pare che le rubiamo.[8]

Inoltre fornisce una dettagliata spiegazione allegorica anche per il supplizio dell’incatenamento:

Che poi facessero menare et ligare Prometheo da Mercurio al Caucaso, l’ordine si rivolge, percioché prima fu Prometheo nel Caucaso che egli animasse l’huomo col rapito fuoco. Per l’avenire adunque vi fu guidato, et già per esso disio l’huomo prudente da Mercurio interprete degli Dei, cioè dall’ammaestramento d’alcuno espositore dei segreti di natura, fu cacciato nel Caucaso, cioè in una solitudine, benché Secondo l’historia egli andasse nel Caucaso et ivi fosse in una rupe rilegato, cioè dalla propria volontà ritenuto. Dicono ch’un’Aquila gli straccia l’interiora, cioè essere tormentato dalle alte considerationi; le quali interiora divenute vuote per la lunga fatica delle speculationi, alhora si ristaurano quando per diverse intricate vie si ritrova la cercata verità d’alcuna cosa.[9]

Una delle ragioni che mi ha spinto ad includere la Genealogia in questa mia trattazione è che in essa troviamo la prima attestazione letteraria del demone Demogorgone, a cui Boccaccio attribuisce il ruolo di capostipite di tutte le divinità. Il poeta afferma di averne trovato notizia nell’opera, oggi perduta, di un autore latino di nome Teodonzio. Sebbene si tratti di un errore, giacché tale personaggio non esiste nella mitologia classica, a partire da Boccaccio esso appare in molte opere con ambientazione mitica, tra cui il Prometheus Unbound di Percy Bysshe Shelley, del quale tratterò tra breve.


L’ANTIPROMETEISMO DI ROUSSEAU

L’Accademia di Digione indisse nel 1750 un concorso sul quesito “se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito alla purificazione dei costumi”. Risultò vincitore l’allora sconosciuto Jean-Jacques Rousseau con il suo Discorso sulle scienze e sulle arti.
In quest’opera il pensatore ginevrino, sovvertendo l’opinione dominante, risponde negativamente al quesito proposto, esaltando lo stato di natura e separando il progresso scientifico da quello etico e dalla stessa felicità umana. Infatti, argomenta Rousseau, le scienze e le arti derivano dai vizi umani e non dalle virtù: per esempio l’astronomia ha avuto origine dalla superstizione, l’eloquenza dall’adulazione e dalla menzogna, la geometria dall’avarizia, la fisica dalla vana curiosità, la giurisprudenza dalla litigiosità. Inoltre esse portano il lusso, che corrompe ulteriormente i valori morali innescando così un circolo vizioso. Di conseguenza Rousseau ribalta il mito di Prometeo eroe della civiltà, e lo definisce “un Dio nemico della quiete degli uomini”.
Questa stessa visione sta alla base anche di un'altra, più nota opera rousseauiana: il Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini. Qui l’autore si sofferma a descrivere le nefaste conseguenze sociali della civilizzazione, ossia la diseguaglianza e lo sfruttamento dei più poveri. E’ interessante notare il parallelismo esistente tra questa visione pessimistica della civiltà e la versione esiodea del mito di Prometeo.



PROMETHEUS UNBOUND, BY P. B. SHELLEY

Prometheus Unbound is a lyrical drama in four acts and it’s the longest Romantic work about the myth of Prometheus. Shelley wrote it in the years 1818 and 1819 during his stay in Italy. It was originally meant to be a trilogy, just as Aeschylus’s one, and as a matter of fact the first three acts are similar in their structure to Greek tragedies. However, Shelley finally decided to add the last act. The ending of the story is different from Aeschylus’s one: here there is no appeasement between Prometheus and Jupiter, who is finally defeated.
The first act is set on the Caucasus, where Prometheus is enchained. Ione and Panthea, two Oceanids, are with him. The Titan starts talking: he wants someone to repeat the curse that he had pronounced against Jupiter at the beginning of his imprisonment. Many Spirits answer to him, but no one dares to repeat those words. The Earth suggests that he should call the Phantasm of Jupiter; the Phantasm comes and repeats the curse. Prometheus is shocked at hearing it, and he wishes he had never pronounced it; now he’s wiser, and he doesn’t want any living being to suffer, not even Jupiter. Then Mercury arrives leading the Furies, who torture Prometheus in order to extort his secret; the torture is not physical, but psychological: the Furies show him the Passion of Christ and the failure of the French Revolution with the intention of undermining his faith in the human race, but Prometheus resists.
In the second act Panthea goes to visit her exiled sister, Asia, who is also Prometheus’s wife. Through Panthea’s eyes Asia can see the soul of the Titan. Panthea tells the sister about a dream: she has seen Prometheus freed and transformed by love. The conversation is interrupted by some Echoes, that invite the Oceanids to follow them. The two sisters are led to Demogorgon’s cave. Demogorgon is the father of all gods, like in Boccaccio’s Genealogia, and he represents the Eternity. Demogorgon exposes Shelley’s philosophical vision: the world was created by God, which is not the God of religions, that are considered as mere superstitions by the poet; the evil is caused by the mistakes of men, but it can be defeated. Then the Hours enter the cave, and Demogorgon departs with one of them. Another Hour brings Asia and Panthea on the top of a mountain, and there Asia has a metamorphosis: she starts shining like the Sun.
The third act opens on the Olympus, where Jupiter is rejoicing, because he thinks he has found a way to submit Demogorgon, thus rendering his reign eternal. But it’s just an illusion: Demogorgon arrives and drags him into an abyss. Since Jupiter is defeated, Hercules goes to the Caucasus and unbinds Prometheus. The Titan goes to live in peace in a cave with the Oceanides. The Spirit of the Earth and the Spirit of the Hour narrate how things have changed in the world after Jupiter’s fall: everything is beautiful now, even the ugliest animals. There are no more kings among men, and everybody lives in peace, equality and fraternity.
The whole fourth act is a song of celebration of the rebirth of nature. In the conclusion of the play Demogorgon expresses Shelley’s moral ideal; I quote the lines from 570 to 578, the last ones:
DEMOGORGON        […] To suffer woes which Hope thinks infinite;
                                   To forgive wrongs darker than death or night;
                                      To defy Power, which seems omnipotent;
                                   To love, and bear; to hope till Hope creates
                                   From its own wreck the thing it contemplates;
                                      Neither to change, nor falter, nor repent;
                                   This, like thy glory, Titan, is to be
                                   Good, great and joyous, beautiful and free;
                                   This is alone Life, Joy, Empire, and Victory.[10]

The play is an allegory that represents the liberation of mankind, symbolized by Prometheus, from the evil that mankind itself creates by mistake, symbolized by Jupiter. The most important event that leads to the liberation is Prometheus’s forgiveness in the first act, that shows that the Titan is now free from hate. Jupiter also represents all religions, that are false and oppressive. Demogorgon is the real God, that doesn’t require any form of devotion or submission: as a matter of fact he doesn’t take Jupiter’s place, but he just drags him into an abyss.

L'INTERPRETAZIONE DI NIETZSCHE NE LA NASCITA DELLA TRAGEDIA

Il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche, nell’opera La nascita della tragedia greca, dà un interpretazione del Prometeo incatenato molto diversa da quella che ho anteriormente illustrato. Egli infatti la considera un “inno all’empietà”, una celebrazione del “santo crimine” che l’uomo è costretto a compiere per innalzarsi dalla propria condizione ferina e dare vita alla civiltà, senza preoccuparsi della totale incongruenza di una tale ideologia con la poetica eschilea. Al “santo crimine” di Prometeo, attivamente e consapevolmente voluto, contrappone l’Edipo sofocleo, eroe della “colpa subita” inconsapevolmente e contro la propria volontà.
Viene anche instaurata una contrapposizione con il mito del peccato originale contenuto nella Genesi. Prometeo rappresenta il crimine ariano, compiuto scientemente da un maschio, che fa progredire la civiltà, sintetizzabile nella triade attività-mascolino-progresso. Il peccato originale, al contrario, è compiuto dalla donna che viene imbrogliata da Satana e causa la decadenza del genere umano; pertanto, esso esemplifica la concezione semitica di peccato come passività-femminino-caduta.
Nietzsche afferma anche che Prometeo è una figura a metà tra apollineo e dionisiaco: egli infatti supera dionisiacamente i limiti imposti dalla divinità, ma lo fa con un intento civilizzatore apollineo.

IL PROMETEO MAL INCATENATO DI GIDE

Nel 1899 André Gide pubblicò un breve libello intitolato Prometeo mal incatenato. In tale opera la vicenda mitica subisce un brusco abbassamento determinato dalla trasposizione in epoca moderna. Così Zeus è un ricchissimo banchiere che deve alla sua posizione economica, oltre che al suo spirito arguto, la possibilità di vivere in modo spensierato a proprio arbitrio. Il grande gesto filantropico del furto del fuoco e la successiva pena si trasformano rispettivamente in fabbricazione abusiva di fiammiferi e conseguente carcerazione.
Il nucleo tematico centrale dell’opera è la teorizzazione e l’esaltazione dell’action absolument gratuite, ossia un atto disinteressato, totalmente libero perché non motivato da niente e privo di ogni finalità. Tale atto è però realizzabile solo da Zeus e non da Prometeo-umanità, che è condizionato dalla coscienza, simboleggiata dall’aquila torturatrice.


BIBLIOGRAFIA

P. BRUNEL, Dizionario dei miti letterari, Edizioni Tascabili Bompiani, Bergamo 2004
G. FERRARO, Il Prometeo incatenato – il mito di Prometeo tra antichi e moderni Tomo II, Edizioni Simone per la scuola, Pozzuoli 2000
R. ROSSI – U.C. GALLICI – G. VALLARINO – A. PORCELLI, Ἐλληνικά – letteratura, testi, cultura greca vol. 1A – L’età arcaica, Edizioni Paravia, Varese 2005
R. ROSSI – U.C. GALLICI – G. VALLARINO – M. FADDA - A. PORCELLI, Ἐλληνικά – letteratura, testi, cultura greca vol. 2A – L’età classica, Edizioni Paravia, Varese 2005
ESIODO, Opere e giorni, Edizioni Garzanti, Milano 1985
P. B. SHELLEY, Prometeo Liberato, G. C. Sansoni editore, Firenze 1924
A. GIDE, Prometeo male incatenato, Edizioni La vita felice, Milano 2012


SITOGRAFIA

http://www.classicitaliani.it/boccaccio/prosa/Genealogia%201.htm
http://www.miti3000.it/mito/biblio/eschilo/prometeo.htm
http://digilander.libero.it/ilcrepuscolodeglidei/testi/greci/Esiodo%20-%20Teogonia.pdf
http://www.miti3000.it/mito/biblio/esiodo/opere.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Genealogie_deorum_gentilium
http://en.wikipedia.org/wiki/Genealogia_Deorum_Gentilium

















[1] http://digilander.libero.it/ilcrepuscolodeglidei/testi/greci/Esiodo%20-%20Teogonia.pdf
[2] http://www.miti3000.it/mito/biblio/esiodo/opere.htm
[3] http://www.miti3000.it/mito/biblio/eschilo/prometeo.htm
[4] ibidem
[5] ibidem
[6] P. BRUNEL, Dizionario dei miti letterari, Edizioni Tascabili Bompiani, Bergamo 2004, pp. 531-532
[7] http://www.classicitaliani.it/boccaccio/prosa/Genealogia%201.htm
[8] ibidem
[9] ibidem
[10] P. B. SHELLEY, Prometeo Liberato, G. C. Sansoni editore, Firenze 1924, p. 214