di Federico Cussotto
Il mito di Prometeo è
tra i più famosi ed intramontabili che la grecità abbia prodotto: a partire
dalla propria nascita ha attraversato tutta la cultura, la letteratura e la
filosofia occidentali ispirando in ogni epoca nuove ed originali interpretazioni,
al pari di Ulisse e di Edipo. Pur non avendo la possibilità, dato lo spazio
ristretto di una tesina, di esaminare tutte le tappe di tale percorso, intendo
trattare brevemente sette di esse che ho selezionato tra quelle che ho ritenuto
più interessanti e significative.
Il motivo del successo
del mito prometeico è a mio avviso semplice, ed è precisamente la ragione che
mi ha spinto a farne l’argomento della mia tesina: esso cerca di fornire una
spiegazione ad uno dei misteri più appassionanti che si possano concepire, e
cioè quello sull’origine della civiltà umana. Se il genoma di uno qualunque di
noi è uguale al 98% a quello di uno scimpanzé, perché siamo apparentemente così
diversi dai nostri cugini evolutivi? Possibile che quel 2% di codice genetico
basti a giustificare una tale differenza? Cosa ha permesso all’uomo di dare
vita a ciò che comunemente definiamo “civiltà”? L’intelligenza? Ma cos’è in
realtà ciò che chiamiamo “intelligenza”?
Inizierò la mia
trattazione con una brevissima introduzione circa le origini del mito, per poi
passare alla sue prime attestazioni letterarie, quelle nei poemi esiodei della Teogonia e delle Opere e giorni, nei quali esso ha una valenza didascalica di
condanna dell’empietà. Nel Prometeo
incatenato di Eschilo il fuoco simboleggia l’ingegno, l’intelligenza,
rivoluzionando così il significato dell’intero personaggio. Nel Medioevo
Boccaccio interpreta allegoricamente la figura del Titano come emblema del
sapiente che si dedica alla ricerca della verità, visione che venne ereditata
dalla maggior parte dei filosofi rinascimentali. Rousseau condanna il progresso
tecnico e scientifico dell’umanità, e di conseguenza anche Prometeo,
considerato come suo simbolo. I Romantici mettono l’accento sulla ribellione
del Titano, un aspetto che non era stato evidenziato in precedenza, e fanno di
lui il loro eroe-simbolo; Shelley, nel suo dramma lirico Prometheus Unbound, ritrae un Prometeo vittorioso su Zeus,
proponendo un finale alternativo per la tragedia eschilea. Nietzsche, nella Nascita della tragedia, interpreta in
maniera non ortodossa il Prometeo
incatenato ed instaura un confronto tra il furto del fuoco ed il peccato
originale della Genesi. André Gide, nel racconto Prométhée mal enchaîné, opera una deformazione parodistica del mito
finalizzata ad introdurre un concetto fondamentale nella propria produzione
letteraria futura, cioè quello dell’action
absolument gratuite.
INTRODUZIONE
Prometeo è, nella
mitologia greca, un Titano figlio di Giapeto, che si rende responsabile di un
atto di ribellione al volere di Zeus rubando il fuoco agli dei per donarlo agli
uomini. Per questo il signore degli dei lo punisce incatenandolo e facendolo
tormentare da un aquila che gli divora il fegato, finché Eracle non lo libera
dal supplizio con il consenso di Zeus. Questo è a grandi linee il nucleo
essenziale della vicenda, che si prestò a infinite variazioni sia
nell’antichità che nell’epoca moderna. Una di queste variazioni, la cui prima
attestazione si trova nella Biblioteca
dello Pseudo-Apollodoro, attribuisce al Titano la creazione stessa dell’uomo,
che sarebbe stato modellato nell’argilla e poi animato grazie all’aiuto di
Atena.
Le origini della figura
mitologica di Prometeo restano avvolte nell’oscurità. Gaston Bachelard considerava
i miti come frutto di un pensiero prescientifico ansioso di dare spiegazioni ai
fenomeni incomprensibili, e quindi attribuiva loro una funzione essenzialmente
eziologica. In questa prospettiva il mito prometeico va annoverato tra i più
antichi ed universali, poiché miti equivalenti sull’origine del fuoco si
trovano nelle culture della maggior parte dei popoli antichi. Salomon Reinach
sostenne, basandosi sul confronto con leggende bretoni e normanne, che l’autore
del furto del fuoco dovesse originariamente essere un animale, alleato
dell’uomo; nei greci l’aquila che divora il fegato di Prometeo sarebbe un
residuo di queste precedenti tradizioni zoolatriche.
Riguardo all’etimologia
del nome, due sono le ipotesi più accreditate. La prima fa riferimento alla
parola sanscrita pramantha, a suo
volta collegata al verbo manthani
(sfregare). Tale termine indica uno dei due bastoncini utilizzati per accendere
il fuoco con la tecnica dello sfregamento, per la precisione quello che viene
fatto ruotare freneticamente all’interno di un foro praticato sull’altro
bastoncino, detto arani. La seconda
ipotesi fa derivare il nome da πρό (prima) + μανθάνω (apprendere), a sua volta
riconducibile alla radice indo-europea man-dh
(prevedere); Prometeo significherebbe dunque “il previdente”. Sulla base di
questa etimologia si venne a formare la coppia antitetica dei due fratelli
Prometeo ed Epimeteo (“lo sprovveduto”). Non è da escludersi che i Greci
abbiano sovrapposto la seconda etimologia alla prima.
ESIODO:
LA PRIMA ATTESTAZIONE LETTERARIA
Esiodo ci narra due
versioni complementari del mito di Prometeo, una nella Teogonia (vv. 507-616) e l’altra nelle Opere e giorni (vv. 42-105), entrambe riportate di seguito in
traduzione italiana.
Teogonia, 507-616
Sposò Giapèto un'Ocèanina,
Climène, fanciulla dal bel malleolo, seco salì nel medesimo letto. E quella generò
Atlante dal valido senno, poi generò Menezio coperto di gloria, e l'accorto
Promèteo scaltro, ed Epimetèo mentecatto, che prima causa del male fu per
quanti manducarono pane: ch'egli accettò da Giove la vergine sculta nel fango. Poi,
Giove onniveggente, nell'Erebo spinse Menezio il tracotante, su lui scagliando il
suo fumido strale, per l'arroganza sua, pel grande soperchio di forze. Per duro
fato Atlante sostiene l'amplissimo cielo, presso all'Espèridi, voci soavi, al
confin della terra: ritto col capo lo regge, con l'infaticabili mani: tale
destino per lui stabilì l'assennato Croníde. E d'infrangibili ceppi dogliosi
avvinghiò Prometeo, mente sottile, a metà d'una stele, e a lui sopra sospinse l'aquila,
il rapido augello, che il fegato ognor gli sbranava; e il fegato immortale via
via tutto attorno cresceva, la notte, quanto il giorno sbranato ne aveva
l'augello. Ma infine al mostro alato die' morte il figliuolo d'Alcmena, il
prode Ercole, e franco mandò da quel morbo funesto il figlio di Giapèto, lo
sciolse dai gravi cordogli: non già contro il volere di Giove signore d'Olimpo:
questi anzi volle che sopra la terra, maggiore di prima d'Ercole volle fosse la
gloria, del figlio di Tebe. Dunque onorò, per questo riguardo, l'illustre
figliuolo, l'ira frenò, per quanto crucciato, che prima lo ardeva contro
Promèteo, che aveva con lui gareggiato in astuzia. Perché, quando a Mecone contesero
gli uomini e i Numi, un gran bove offerì Promèteo, con subdola mente, e lo
spartì, traendo la mente di Giove in inganno. Perché le carni tutte, l'entragne
con l'adipe grasso depose entro la pelle, coperte col ventre del bove, e a lui
le candide ossa spolpate, con arte di frode, offrì, disposte a modo, nascoste
nel lucido omento. "O di Giapeto figlio, famoso fra gli uomini tutti, quanto
divario c'è, tra le parti che hai fatte, mio caro!" Così Giove, l'eterno
consiglio, crucciato gli disse. E gli rispose così Promèteo, lo scaltro
pensiero, dolce ridendo, né fu dell'arti di frode oblioso: "Illustre
Giove, sommo fra i Numi che vivono eterni, scegli quello che più ti dice di
scegliere il cuore". Disse, tramando l'inganno; ma Giove, l'eterno
consiglio, bene avvisata la frode, ché non gli sfuggì, nel suo cuore sciagure
meditò contro gli uomini; e furon compiute.
Il bianco adipe, dunque, levò con
entrambe le mani, e si crucciò nel cuore, di bile avvampò, quando l'ossa
del bue candide scorse, composte
con arte di frode. Di qui l'usanza venne che sopra gli altari fragranti
bruciano l'ossa bianche dei bovi
i mortali ai Celesti. E nel suo cruccio, Giove che i nugoli aduna, gli disse:
"O di Giapèto figlio, che
sei d'ogni cosa maestro, dunque obliata non hai, caro amico, la tua
frodolenza".
Così, crucciato, il Dio dagli
eterni consigli diceva; e da quel giorno, mai non dimenticando la frode, agli
uomini tapini che vivono sopra la terra, nati a morire, la forza negò
dell'indomito fuoco. Ma l'ingannò di Giapèto l'accorto figliuolo, e la vampa che
lunge brilla, a lui furò dell'indomito fuoco, entro una ferula cava. Nel mezzo
del cuore fu morso Giove che freme dall'alto, di bile fu pieno il suo cuore, come
fra gli uomini vide la vampa che fulge lontano; e un male, a trar vendetta del
fuoco, creò pei mortali. Un simulacro plasmò con la terra l'insigne Ambidestro,
simile ad una fanciulla pudica: lo volle il Croníde. La cinse e l'adornò la
Diva occhiglauca Atèna, con una candida veste, sul capo le pose una mitra istorïata
con le sue mani, stupenda a vederla, e su la fronte corone le pose Pàllade
Atèna di fiori, appena appena spiccati dall'erba fiorente. E d'oro un dïadema
le cinse d'intorno alla fronte, che avea per lei foggiato l'artefice insigne
ambidestro, con le sue proprie mani, per far cosa grata al Croníde. In esso
molte fiere scolpite con arte stupenda erano, molte, quante ne nutrono il mare
e la terra: tante scolpite ne aveva, fulgendone somma bellezza, meravigliosa; e
tutte sembrava che avessero voce. Poscia, com'ebbe scolpito quel bello ma
tristo malanno, addusse ov'eran gli altri Celesti e i mortali la donna, tutta
dei fregi ornata d'Atèna dagli occhi azzurrini. E meraviglia colse le genti
mortali ed i Numi, quando l'eccelsa frode funesta agli umani fu vista. Da
questa derivò delle tenere donne la stirpe, la razza derivò, la donnesca genia
rovinosa, grande iattura, che vive fra gli uomini nati a morire, che della
povertà compagne non son, ma del lusso. Come allorché nei loro profondi
alveari, le pecchie nutrono i pigri fuchi, compagni d'ogni opera trista: esse
l'intero dì, sin che il sole si tuffa nel mare, sinché la luce brilla,
riempiono i candidi favi; e, rimanendo i fuchi nel fondo agli ombrosi alveari, mèsse
nel ventre fanno di ciò che raccolsero l'altre: similemente, a danno degli
uomini, Giove che tuona dal ciel, pose le donne, compagne d'ogni opera trista. E
un altro male, invece d'un bene, anche inflisse ai mortali: chi, per fuggire i
tanti pensier che le femmine dànno, schiva le nozze, e giunge soletto all'esosa
vecchiezza, non ha, seppure nulla gli manca, nessun che l'assista; e quando
viene a morte, dividon lontani parenti fra lor la sua sostanza. Chi poi vuol
marito il destino, quand'anche abbia una moglie pudica, di mente assennata, col
tempo, anche per lui si bilanciano il bene ed il male. Ma quello che s'imbatte
con una di trista genia, nutre, per tutta quanta la vita, una smania nel seno, nell'animo,
nel cuore, rimedio non c'è del suo male. Né trasgredire si può, né frustrare il
volere di Giove. Neanche Prometeo, di Giapeto il benefico figlio, all'implacato
suo sdegno sfuggì: con fatale potenza immani ceppi lui costrinsero; e tanto era
scaltro.
Opere
e giorni,
42-105
Gli dei infatti tengon nascosto
agli uomini il sostentamento, ché facilmente, allora, potresti lavorare un solo
giorno e per un anno ne avresti, anche restando nell'ozio, presto il timone lo
potresti appendere sul fumo
e sarebbe finito il lavoro dei
buoi e dei muli pazienti; ma Zeus lo nascose adirato dentro il suo cuore. Perché
Prometeo dagli astuti pensieri lo aveva ingannato, per questo meditò agli
uomini tristi sciagure: nascose il fuoco; ma ancora di Giapeto il figlio
valente lo rubò per gli uomini a Zeus dai saggi consigli di nascosto a Zeus
fulminatore, in una ferula cava. A lui Zeus che aduna le nuvole disse adirato: "O
figlio di Giapeto, tu che fra tutti nutri i pensieri più accorti, tu godi del
fuoco rubato e di avermi ingannato, ma a te un gran male verrà, e anche agli
uomini futuri: io a loro, in cambio del fuoco, darò un male, e di quello tutti
nel cuore si compiaceranno, il loro male circondando d'amore". Così disse
e rise il padre di uomini e dei: a Efesto illustre ordinò poi che, veloce, intridesse
terra con acqua, vi ponesse dentro voce umana e vigore e, somigliante alle dee
immortali nell'aspetto, formasse bella e amabile figura di vergine; poi ad
Atena che le insegnasse i lavori: a tesser la tela dai molti ornamenti, e che
grazia intorno alla fronte le effondesse l'aurea Afrodite e desiderio tremendo
e le cure che rompon le membra; che le ispirasse un sentire impudente e
un'indole scaltra ordinò ad Ermete, il messaggero Argifonte. Così disse, e
quelli obbedirono a Zeus Cronide signore; allora di terra formò l'illustre
Zoppo un'immagine simile a vergine casta, secondo la volontà del Cronide; la
cinse e l'adornò la dea glaucopide Atena, attorno le dee Grazie e Persuasione
signora le posero auree collane, attorno a lei le Ore dalle belle chiome
intrecciaron collane di fiori di primavera; ed ogni ornamento al suo corpo
adattò Pallade Atena. Dentro al suo petto infine il messaggero Argifonte menzogne
e discorsi ingannevoli e scaltri costumi pose, come voleva Zeus che tuona
profondo, e dentro la voce le pose l'araldo di dei e chiamò questa donna Pandora,
perché tutti gli abitatori delle case d'Olimpo la diedero come dono, pena per
gli uomini che mangiano pane. Poi, dopo che l'inganno difficile e senza scampo
ebbe compiuto, ad Epimeteo il padre mandò l'illustre Argifonte, araldo veloce,
a portare il dono degli dei; ed Epimeteo non volle porre mente, come a lui
Prometeo diceva, a non accogliere mai dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo
indietro, che qualche male non dovesse venire ai mortali: però solo dopo che
l'ebbe accolto, quando subì la disgrazia, capì. Prima infatti sopra la terra la
stirpe degli uomini viveva lontano e al riparo dal male, e lontano dall'aspra
fatica, da malattie dolorose che agli uomini portan la morte - veloci infatti
invecchiano i mortali nel male -. Ma la donna, levando con la sua mano
dall'orcio il grande coperchio, li disperse, e agli uomini procurò i mali che
causano pianto. Solo Speranza, come in una casa indistruttibile, dentro
all'orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori volò, perché prima aveva
rimesso il coperchio dell'orcio per volere di Zeus egioco che aduna le nubi. E
infinite tristezze vagano fra gli uomini e piena è la terra di mali, pieno n'è
il mare; i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte da soli si aggirano,
ai mortali mali portando, in silenzio, perché della voce li privò il saggio
Zeus. Così non è possibile ingannare la mente di Zeus.
Nella
Teogonia la vicenda del furto del
fuoco costituisce una digressione narrativa, collocata dopo una rapida descrizione
della famiglia di Prometeo: egli è figlio di Giapeto, fratello di Crono, e
dell’Oceanina Climene; tre sono i suoi fratelli: Menezio, Atlante ed Epimeteo.
L’episodio si apre con una prolessi che anticipa la punizione del Titano e la
sua liberazione, per poi tornare indietro nel tempo a raccontare quale fu la
causa del castigo: la prima disputa tra Prometeo e Zeus si verifica a Mecone
allorquando, dividendo le carni di un toro sacrificato, il Titano con un astuto
inganno fa in modo di destinare al signore degli dei solo le ossa, lasciando
agli uomini le parti migliori dell’animale. Per rappresaglia allora Zeus
sottrae il fuoco agli uomini (che dunque lo possedevano già). Al furto del
fuoco segue quindi una nuova e più spietata vendetta verso il genere umano:
Zeus ordina a Efesto di fabbricare con l’argilla la prima donna, la quale
riceve poi da Atena una serie di doni volti a renderla attraente e viene
mandata sulla terra per arrecare noie e sciagure agli uomini. La digressione si
chiude, secondo Ringkomposition, con
un rievocazione della pena inflitta al Titano.
Il brano dalle Opere e giorni risponde ad un’esigenza
eziologica: spiegare la necessità del lavoro per l’uomo e la presenza dei mali
(come la fame, il freddo, la fatica, la povertà, la malattia, ecc…) nel mondo. Esse
vengono ricondotte alla fanciulla modellata da Efesto, di cui Esiodo ora ci
dice il nome, Pandora, e di cui ci fornisce una descrizione più dettagliata;
tutti gli dei contribuiscono a rifinirla e a conferirle caratteristiche che la renderanno
perniciosa per gli uomini, da cui il nome, che per Esiodo significa “dono di
tutti gli dei”. La femme fatale così creata viene spedita in dono allo stolto
Epimeteo, che ingenuamente la accoglie, dimenticando il saggio ammonimento del
fratello a non accettare regali da parte degli dei. Pandora scoperchia il vaso
nel quale erano rinchiusi tutti i mali dell’umanità, i quali si spargono nel
mondo, ponendo fine alla condizione edenica in cui viveva il genere umano fino
ad allora. Solo Ἐλπίς resta, per volere di Zeus, chiusa dentro il vaso. Tale
termine in questo contesto non ha probabilmente il significato positivo di
“speranza”, ma quello neutro di “aspettativa”, che include un aspetto
“epimeteico” (impedisce di prevedere le disgrazie e di evitarle) ed uno
“prometeico” (induce a sperare in un futuro migliore e a lavorare per
ottenerlo).
Nelle versioni del mito
forniteci da Esiodo Prometeo appare come un benefattore maldestro che, pur
animato da buone intenzioni, finisce per causare la caduta del genere umano
dall’originaria condizione di beatitudine, ed
in questo aspetto è accostabile al Satana della Genesi. La sua sconfitta
è totale e senza appello. L’unico insegnamento che si può trarre dalla sua
vicenda è quello esplicitato dallo stesso Esiodo: “Né trasgredire si può, né
frustrare il volere di Giove” (Teogonia,
613) e “Così non è possibile ingannare la mente di Zeus” (Opere e giorni, 105). E’ da notare che in Esiodo il fuoco non
riveste ancora alcuno dei significati simbolici che acquisterà in seguito.
IL
PROMETEO INCATENATO DI ESCHILO
Circa tre secoli dopo
Esiodo troviamo la prima opera letteraria interamente dedicata al mito: il Prometeo incatenato di Eschilo, di
datazione incerta, compresa probabilmente tra il 467 e il 458. Le due tragedie che
dovevano completare la trilogia sono andate perdute, ma ne conosciamo i titoli:
Prometeo liberato e Prometeo portatore del fuoco.
Nel prologo vediamo
Prometeo, scortato da Κράτος (Potere) e Βία (Forza), che per ordine di Zeus
viene incatenato da Efesto sulle montagne della Scizia. Nella parodo, dal
dialogo lirico tra il Titano ed il Coro delle Oceanine, emerge già un nuovo e
fondamentale dettaglio rispetto alla versione esiodea: Prometeo è a conoscenza
di un segreto vitale per Zeus, egli sa il nome di colui che è destinato dal
Fato a detronizzare il signore degli dei. Riporto le parole esatte di Prometeo
(vv.172-182):
Di
me, sì, di me - di quest'infamia vivente coi polsi nei ceppi di ferro - avrà
urgenza il sovrano celeste: che gli spieghi il nuovo tranello, la mano decisa a
razziargli corona e potere. Dolci scongiuri a incantarmi, fascini. a farmi dire
di sì: nulla potranno. Né mai mi fletto all'aspra minaccia. Non chiarirò il
segreto, se prima non snoda i disumani ceppi, e consente a pagarmi il riscatto
d'osceno martirio.
Nel primo episodio
Prometeo narra al coro come egli, nella guerra tra Titani e Cronidi, abbia
combattuto per i secondi (e quindi per Zeus) cercando di portare anche i
fratelli dalla propria parte, ma senza successo. Tuttavia, dopo la vittoria, il
signore degli dei era deciso, per capriccio, a sterminare gli uomini e
Prometeo, unico fra gli dei, ebbe il coraggio di opporglisi, cosa che gli
meritò l’atroce castigo che ora subisce. Lo scopo è quello di sottolineare
l’ingratitudine di Zeus ed enfatizzare il drammatico contrasto tra la
condizione privilegiata di cui avrebbe potuto godere il Titano e quella attuale
e misera in cui è sprofondato. Dopo Prometeo precisa di aver fatto due doni
fondamentali al genere umano: non solo il fuoco, ma anche e soprattutto le
τυφλαὶ ἐλπίδες (v.248), le “cieche speranze”, che permettono ad ogni uomo di
dimenticare quanto breve e caduca sia la propria vita e di impegnarsi così in
opere che trascendono la propria esistenza personale. Riporto i versi 245-253:
PROMETEO
Era fisso, sbarrato all'ora fatale
l'occhio dell'uomo: io lo distolsi.
CORO
Che medicina
inventasti a questa piaga?
PROMETEO
Opaco sperare: l'ho fatto colono dei
cuori.
CORO
Regalo grande hai
donato ai viventi.
PROMETEO
Non basta: io, ho fatto loro compagna
la fiamma.
CORO
E ora ha il lampo
del fuoco chi tramonta col giorno?
PROMETEO
Una fonte, da trarne la scienza di
molti mestieri.
Segue l’entrata in
scena di Oceano, animato da pietà verso il Titano sofferente ed intenzionato ad
intercedere per lui presso Zeus, ma Prometeo lo dissuade da un tale proposito.
Nel secondo episodio narra al coro di aver fatto molti altri doni agli uomini:
ha insegnato loro l’astronomia, la matematica, la scrittura, l’allevamento
degli animali, la navigazione, la farmacopea e l’arte divinatoria. Nel terzo
episodio entra in scena la vergine Io, perseguitata da Era perché amata da
Zeus. Prometeo le predice quali saranno le tappe future del suo interminabile
vagabondare per il mondo, provocando in lei una disperazione incontenibile.
Inoltre rivela qualcosa di più al coro circa il segreto che custodisce
gelosamente: da una delle tante unioni di Zeus nascerà un figlio che
detronizzerà il padre, così come Zeus aveva detronizzato Crono. Questo potrà
essere evitato solo se Prometeo rivelerà il nome della dea o della donna in
questione, cosa che ovviamente non ha intenzione
di fare.
L’esodo è, secondo la
mia opinione, la sezione più significativa dell’intera tragedia per la profonda
impressione che eserciterà dopo secoli sui romantici; ne riporto quindi
un’ampia parte (vv.942-1093)
PROMETEO […] Là! Chi vedo. Lui, il corridore di Zeus,
braccio destro del despota, appena arrivato. Senz'altro è qui a riferire fresche
notizie.
ERMES Ehi, pozzo di scienza, testardo intestardito,
l'hai fatta grossa agli dèi: passare i poteri a chi tramonta in un
giorno! Ladro di fuoco, dico a te. Zeus padre comanda: indica di che nozze ti glori, per mano di chi deve
cadere il suo impero. E aggiunge: senza giri viziosi, ma svelando fatto per fatto. Non
infliggermi doppio cammino, Prometeo. Non è modo, lo vedi, per fare più morbido Zeus.
PROMETEO Discorso sublime, davvero. Si sente, mente
superba, la tua: da sgherro di dèi. Siete di oggi. Di oggi è
il vostro dominio: illusi di vivere in torri sbarrate all'angoscia. Non sono
già due i sovrani piombati dall'alto? Coi miei
occhi li ho visti. Un lampo, e vedrò anche il terzo, quello che è ora monarca: più
umiliato che mai. Rabbrividire, io, acquattarmi di fronte a quei giovani dèi? Ti par
proprio? Ne manca, anzi, non sarà
mai. Tu riprendi la tua strada, spicciati:
da me non udrai parola, di quello che chiedi.
ERMES Già una volta, per amore caparbio di
te, t'incagliasti tra questi tormenti.
PROMETEO Il tuo stare a servizio, il mio sacrificio:
non farei cambio mai, imparalo bene.
ERMES Già, meglio il servizio a questa tua
roccia, che esser portavoce docile di Zeus padre, immagino.
PROMETEO Peccatori superbi così peccano,
superbamente!
ERMES Ti scaldi, mi pare, al pensiero di
quello che sei.
PROMETEO Io, scaldarmi? Vedessi caldo così chi mi
odia. Nel numero metto anche te.
ERMES Io? Addossi anche a me la disgrazia
che soffri?
PROMETEO Semplice. Sono carico d'odio contro gli dei,
tutti. Gente che mi deve favori e invece, tradendo, m'offende.
ERMES Sento che ormai deliri: una febbre
non passeggera.
PROMETEO Febbre, delirio? Se è delirio esecrare chi
t'odia.
ERMES Impossibile reggerti, se fossi tu il
fortunato.
PROMETEO Aaah, che miseria!
ERMES Ecco parola che Zeus neppure conosce.
PROMETEO Il tempo, quel vecchio perenne, insegna di
tutto, alla fine.
ERMES Tu ancora però non conosci equilibrio
di mente.
PROMETEO Purtroppo: non starei a parlare con te,
sgherro.
ERMES Nulla hai da dire, vedo, alle
richieste del Padre.
PROMETEO Al contrario. Che gli sono obbligato, e
vorrei ricambiarlo.
ERMES Ti beffi. Per bimbo immaturo m'hai
preso.
PROMETEO Peggio. Peggio di un bimbo immaturo, più
demente, se t'illudi di cavarmi parola di bocca. Zeus non possiede né infamia, né scaltra tortura, da
piegarmi a svelare le cose: prima deve farmi
cadere di dosso l'offesa dei nodi. Che risponda sferrando vampa infuocata.
Sfasci, agiti il cosmo
con piume lucenti di neve, coi boati d'abisso. Nulla mi farà inginocchiare, a svelargli la mano
capace di gettarlo giù dall'impero.
ERMES Pensa bene, se è il modo di porti al
riparo.
PROMETEO È un pezzo che penso. Ho deciso: va bene
così.
ERMES Coraggio, cieco che sei! Abbi
coraggio, una volta, di riflettere a mente serena sul tuo soffrire.
PROMETEO Cieco tu. M'angosci. Ma è come parlassi alla
risacca del mare. Non ti venga pensiero che il progetto di Zeus mi spaventi, mi
riduca ad aver cuore di donna. È lui tutto il mio odio vivo. Non avrà mai la mia
supplica - donnetta, diresti di me, le mani curve, protese - che mi salvi da queste catene: tempo eterno,
c'è in mezzo.
ERMES Parlo, mi ostino. Ma è sempre parlare
alla cieca, vedo. Non ti sciogli, non hai cedimenti, neppure alle mie
insistenze. Sei puledro fresco di stanghe: morsica il ferro, tempesta, fa guerra alle briglie.
Ma la tua furia è frutto d'ingegno spossato. Puro, nudo amore di sé, in chi non gode equilibrio di mente,
vale meno che nulla. Puoi anche non
essere vinto dal mio ragionare:
pensa la raffica, l'enorme ondata di mali pronta all'assalto. Non hai fuga. Comincerà
così. A boati, a colpi di saetta lucente il Padre ti spacca il tuo precipizio scoglioso. La
tua carne sprofonda, ti raccoglie tenaglia di sasso. Sconterai fino in fondo vastissimi anni, per
riemergere al sole. Allora il segugio volante di Zeus, l'aquila striata di sangue, golosa, farà
macello di te, cencio smisurato di carne: tu non l'inviti, ma lei scivola dentro,
al festino, e finché dura la luce fa onore alla mensa, al tuo fegato scuro! Non
illuderti, non esiste
confine al tormento, se prima dai celesti non sorge uno che erediti il tuo
sacrificio, deciso a calarsi
sotterra, dove raggio non brilla, nel Tartaro cavo, spento. Pesa i fatti, poi scegli. Sta' certo, non è
presunzione bugiarda la nostra, è realtà ribadita, fermissima. Lingua di Zeus non sa menzogna: ogni
parola è spinta al suo fine. Sii prudente, calcola tutto: non seguire l'idea che l'amore di
sé abbia forza più del chiaro intelletto.
CORO Per noi, Ermes ragiona come il
momento richiede. Ti comanda di deporre l'amor proprio caparbio,
d'esplorare la via del chiaro, pensoso equilibrio. Seguilo: peccare sfregia chi
possiede ragione.
PROMETEO M'era già noto da sempre l'annuncio che
questa voce scandisce. Se c'è l'odio non è sfregio patire da
quello che t'odia. Risponda fiondandomi addosso l'affilata voluta di fuoco, s'impenni la volta stellata ai boati, al delirio di
folate furenti. Oh, se il vortice schioda il pianeta dal perno, con tutto il suo
tronco! Se oceano ribolle, roca mugghiante muraglia al passaggio dei corpi celesti! Sollevi, fiondi la mia
carne al Tartaro cupo: morsa massiccia, fatale.
Non può dare morte totale al mio io!
ERMES Voci, ragioni d'un cervello
sconvolto: sei subito certo, a sentirle. Perfetta frenesia, corda stridente
il suo sogno. Non è folle, caparbio? A voi, ora, che concordi spartite il suo
strazio: lasciate di volo la vetta, che il rantolo sordo
prodigioso del tuono non v'abbagli la mente.
CORO Muta argomenti. Dimmi ragioni che
possa seguire. Il tuo dire dilaga: una piena, senza riparo. Allenati
a essere vile, mi dici. Perché? Soffro al suo fianco, fino in fondo. Io,
scelgo. So l'odio contro chi
è perfido. Non c'è peste che mi disgusti tanto.
ERMES Bene. V'anticipo tutto: fissatelo in
mente. Non bestemmiate Fortuna quando Supplizio vi avrà nel carniere. Non dite che Zeus v'ha scagliato
improvviso castigo. Non Zeus. Voi, proprio
voi. Coscienti - non come un lampo, di frodo - cadrete nei nodi, rete senza
spiraglio di
Supplizio: causa è la vostra demenza.
PROMETEO Non è favola, è reale questa terra che
vibra. Roco si rifrange il boato - muggito profondo - turbine
esplode di rovente saetta, nodo di vento mulina la sabbia: sgroppano raffiche intreccio di folate rissose scena di soffi che urtano,
saldi. Oceano, cielo: un impasto sconvolto. Eccolo, il pugno, da
Zeus: è forgia d'angoscia. S'accosta. Risplende! Madre adorata.
O Cielo che ruoti, diffondi chiarore nel cosmo,
contempla il martirio:
vìola Giustizia.
La rupe si spacca. Prometeo e le
Ninfe sprofondano. Bagliori e boati chiudono il dramma.
L’opera eschilea conferisce
al mito una portata religiosa e metafisica decisiva. Innanzitutto, in essa il
fuoco si carica di una forte valenza allegorica: esso rappresenta la scintilla
dell’intelligenza divina che, instillata in una bestia bruta come l’uomo delle
origini, gli permette di dominare la natura e di avviarsi sulla strada della
civiltà. Rivelatore in questo senso è il verso 253: la fiamma è “una fonte, da
trarne la scienza di molti mestieri”. L’intervento di Prometeo quindi non è
deleterio per l’umanità, ma salvifico, in quanto ne impedisce la distruzione ad
opera di Zeus. Il modo in cui le figure del Titano ribelle e del re degli dei
vengono dipinte è rivoluzionario: Zeus è un tiranno crudele, capriccioso e
dispotico, mentre Prometeo ci appare come un martire vittima di un potere
ingiusto. Il comportamento del Titano eschileo può essere solo in apparenza
etichettato come ὕβρις, che era il peccato per eccellenza
nella religione olimpica, cioè la ribellione contro la divinità, determinata
dal μέγα φρονεῖν, ossia l’eccessi presunzione di sé. Se infatti si confronta
Prometeo con un qualunque caso di ὕβρις,
emerge chiara una fondamentale differenza. Il tipico ὑβριστής infatti è sempre
vittima di Ἄτη, l’accecamento, che lo illude di poter sfidare gli dei
impunemente e gli impedisce di vedere il baratro verso cui si avvia con le sue
azioni; l’ὑβριστής, in altre parole, è sempre incosciente e la sua tragica
caduta giunge completamente inaspettata, provocando un tardivo pentimento. Sono
tutte caratteristiche che palesemente mancano al nostro personaggio. La sua ribellione
infatti è deliberatamente voluta, nella piena consapevolezza di tutte le
conseguenze che essa comporta, e non viene rinnegata neanche dopo la caduta.
Nell’esodo egli arriva a persino a rivolgere implicitamente l’accusa di ὕβρις
contro lo stesso Zeus: il signore degli dei infatti presume eccessivamente di
sé dimenticandosi di essere anch’egli soggetto al Fato e non tiene conto del
fatto che potrebbe essere detronizzato, come avvenuto ai suoi predecessori.
Una tale visione
negativa di Zeus, ha spinto molti critici a sollevare dei dubbi circa
l’attribuzione di questa tragedia ad Eschilo, poeta noto per una profonda fede
nel re degli dei considerato come garante della giustizia universale. Il
problema tuttavia non sussiste se si tiene a mente che il Prometeo incatenato doveva essere seguito nella trilogia da un Prometeo liberato e da un Prometeo portatore del fuoco. Della
prima conosciamo a grandi linee la trama: dopo un supplizio di trentamila anni,
Zeus faceva liberare il Titano, che a sua volta rivelava il segreto, rendendo
eterno e definitivo il regno di Zeus. Si può ipotizzare che l’ultima tragedia
narrasse l’istituzione del culto a Prometeo, segnando la definitiva
composizione del conflitto. L’equivoco nasce poiché il Cristianesimo ci ha
abituati a concepire un Dio in esse,
cioè perfetto ed immutabile per l’eternità. Eschilo invece, essendo greco,
considerava le divinità in fieri,
cioè soggette a mutamenti e a maturazione, esattamente come gli uomini. Il
tiranno del Prometeo incatenato è un dio ancora giovane, incapace di usare
saggiamente il proprio potere, e ha sbagliato pretendendo di distruggere
l’umanità senza motivo. Lo Zeus del Prometeo liberato doveva essere invece un
dio “adulto, assennato, la cui perfezione infine realizzata consiste nella
coincidenza tra la sua volontà e la giustizia”[6].
LA
GENEALOGIA DEORUM GENTILIUM DI
BOCCACCIO
La Genealogia Deorum Gentilium è un’opera di prosa latina in 15 libri sulla
mitologia pagana, scritta da Boccaccio a partire dal 1360 sotto la committenza
di Ugo IV di Cipro. Fino a due secoli dopo la morte del poeta, era
universalmente considerata come la sua opera più importante, mentre gli scritti
in volgare erano trascurati. I passi citati di seguito provengono dalla
traduzione cinquecentesca di Giuseppe Betussi.
Boccaccio parla di
Prometeo nel libro IV. La vicenda del Titano viene così narrata:
Dicono
che, havendo Prometheo di fango formato un huomo senza spirito, Minerva si
diede maraviglia di così eccellente opra, onde a lui promesse ciò ch’egli
volesse tra tutti i beni celesti per dar compimento alla sua opra. Il quale
rispondendo che non sapeva che dimandarle se non vedeva quelle cose che
appresso gli dei fossero utili, di che da lei fu inalzato in cielo, dove
veggendo tutte le cose celesti animate con fiamme (per infondere ancho all’opra
sua la fiamma), segretamente porse vicino alle ruote di Phebo una verga, et
havendola accesa et rubato il foco il riportò in Terra, aggiungendolo al petto
del finto huomo; et così il fece animato, et chiamollo Pandora. Là onde i dei
mossi ad ira fecero che Mercurio il legò al Caucaso, et diedero all’avoltoio,
overo all’Aquila, il suo core da essere in eterno divorato.
Successivamente
fornisce un’interpretazione allegorica molto originale: Prometeo, argomenta il
poeta, è un personaggio dalla natura duplice, poiché ha due ruoli fondamentali,
cioè quelli di creatore e vivificatore del genere umano. Pertanto Boccaccio
distingue due Prometei: il primo, il creatore, è da identificarsi con Dio; il
secondo, il ladro di fuoco, rappresenta invece il prototipo dell’uomo sapiente
che si dedica alla speculazione filosofica per poi rendere l’umanità partecipe
delle scoperte effettuate. Ma qui sorge un problema: perché l’acquisizione di
nuove conoscenze dovrebbe essere rappresentata da un furto? Qual è il legame
tra due azioni in apparenza così diverse? Boccaccio risponde così:
Veramente
ciò non è detto inconvenevolmente, percioché non nei theatri, nelle piazze, né
in publico apprendiamo il lume della verità, ma separati nelle solitudini; et
ricercato il silentio entriamo in consideratione, et con la continua
speculatione ricerchiamo le nature delle cose; et perché queste tai cose si
fanno segretamente, pare che le rubiamo.
Inoltre fornisce una
dettagliata spiegazione allegorica anche per il supplizio dell’incatenamento:
Che
poi facessero menare et ligare Prometheo da Mercurio al Caucaso, l’ordine si
rivolge, percioché prima fu Prometheo nel Caucaso che egli animasse l’huomo col
rapito fuoco. Per l’avenire adunque vi fu guidato, et già per esso disio
l’huomo prudente da Mercurio interprete degli Dei, cioè dall’ammaestramento
d’alcuno espositore dei segreti di natura, fu cacciato nel Caucaso, cioè in una
solitudine, benché Secondo l’historia egli andasse nel Caucaso et ivi fosse in
una rupe rilegato, cioè dalla propria volontà ritenuto. Dicono ch’un’Aquila gli
straccia l’interiora, cioè essere tormentato dalle alte considerationi; le
quali interiora divenute vuote per la lunga fatica delle speculationi, alhora
si ristaurano quando per diverse intricate vie si ritrova la cercata verità
d’alcuna cosa.
Una
delle ragioni che mi ha spinto ad includere la Genealogia in questa mia trattazione è
che in essa troviamo la prima attestazione letteraria del demone Demogorgone, a
cui Boccaccio attribuisce il ruolo di capostipite di tutte le divinità. Il
poeta afferma di averne trovato notizia nell’opera, oggi perduta, di un autore
latino di nome Teodonzio. Sebbene si tratti di un errore, giacché tale
personaggio non esiste nella mitologia classica, a partire da Boccaccio esso
appare in molte opere con ambientazione mitica, tra cui il Prometheus Unbound di Percy Bysshe Shelley, del quale tratterò tra
breve.
L’ANTIPROMETEISMO
DI ROUSSEAU
L’Accademia di Digione
indisse nel 1750 un concorso sul quesito “se il rinascimento delle scienze e
delle arti abbia contribuito alla purificazione dei costumi”. Risultò vincitore
l’allora sconosciuto Jean-Jacques Rousseau con il suo Discorso sulle scienze e sulle arti.
In quest’opera il
pensatore ginevrino, sovvertendo l’opinione dominante, risponde negativamente
al quesito proposto, esaltando lo stato di natura e separando il progresso
scientifico da quello etico e dalla stessa felicità umana. Infatti, argomenta
Rousseau, le scienze e le arti derivano dai vizi umani e non dalle virtù: per
esempio l’astronomia ha avuto origine dalla superstizione, l’eloquenza
dall’adulazione e dalla menzogna, la geometria dall’avarizia, la fisica dalla
vana curiosità, la giurisprudenza dalla litigiosità. Inoltre esse portano il
lusso, che corrompe ulteriormente i valori morali innescando così un circolo vizioso.
Di conseguenza Rousseau ribalta il mito di Prometeo eroe della civiltà, e lo
definisce “un Dio nemico della quiete degli uomini”.
Questa stessa visione
sta alla base anche di un'altra, più nota opera rousseauiana: il Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra
gli uomini. Qui l’autore si sofferma a descrivere le nefaste conseguenze
sociali della civilizzazione, ossia la diseguaglianza e lo sfruttamento dei più
poveri. E’ interessante notare il parallelismo esistente tra questa visione
pessimistica della civiltà e la versione esiodea del mito di Prometeo.
PROMETHEUS UNBOUND, BY P. B. SHELLEY
Prometheus Unbound is a lyrical drama in four acts and it’s the longest
Romantic work about the myth of Prometheus. Shelley wrote it in the years 1818
and 1819 during his stay in Italy. It was originally meant to be a trilogy,
just as Aeschylus’s one, and as a matter of fact the first three acts are
similar in their structure to Greek tragedies. However, Shelley finally decided
to add the last act. The ending of the story is different from Aeschylus’s one:
here there is no appeasement between Prometheus and Jupiter, who is finally
defeated.
The first act is set on the Caucasus, where Prometheus
is enchained. Ione and Panthea, two Oceanids, are with him. The Titan starts
talking: he wants someone to repeat the curse that he had pronounced against
Jupiter at the beginning of his imprisonment. Many Spirits answer to him, but
no one dares to repeat those words. The Earth suggests that he should call the
Phantasm of Jupiter; the Phantasm comes and repeats the curse. Prometheus is
shocked at hearing it, and he wishes he had never pronounced it; now he’s
wiser, and he doesn’t want any living being to suffer, not even Jupiter. Then
Mercury arrives leading the Furies, who torture Prometheus in order to extort
his secret; the torture is not physical, but psychological: the Furies show him
the Passion of Christ and the failure of the French Revolution with the
intention of undermining his faith in the human race, but Prometheus resists.
In the second act Panthea goes to visit her exiled
sister, Asia, who is also Prometheus’s wife. Through Panthea’s eyes Asia can
see the soul of the Titan. Panthea tells the sister about a dream: she has seen
Prometheus freed and transformed by love. The conversation is interrupted by
some Echoes, that invite the Oceanids to follow them. The two sisters are led
to Demogorgon’s cave. Demogorgon is the father of all gods, like in Boccaccio’s
Genealogia, and he represents the
Eternity. Demogorgon exposes Shelley’s philosophical vision: the world was
created by God, which is not the God of religions, that are considered as mere
superstitions by the poet; the evil is caused by the mistakes of men, but it
can be defeated. Then the Hours enter the cave, and Demogorgon departs with one
of them. Another Hour brings Asia and Panthea on the top of a mountain, and
there Asia has a metamorphosis: she starts shining like the Sun.
The third act opens on the Olympus, where Jupiter is
rejoicing, because he thinks he has found a way to submit Demogorgon, thus
rendering his reign eternal. But it’s just an illusion: Demogorgon arrives and
drags him into an abyss. Since Jupiter is defeated, Hercules goes to the
Caucasus and unbinds Prometheus. The Titan goes to live in peace in a cave with
the Oceanides. The Spirit of the Earth and the Spirit of the Hour narrate how
things have changed in the world after Jupiter’s fall: everything is beautiful
now, even the ugliest animals. There are no more kings among men, and everybody
lives in peace, equality and fraternity.
The whole fourth act is a song of celebration of the
rebirth of nature. In the conclusion of the play Demogorgon expresses Shelley’s
moral ideal; I quote the lines from 570 to 578, the last ones:
DEMOGORGON […]
To suffer woes which Hope thinks infinite;
To
forgive wrongs darker than death or night;
To defy Power, which seems omnipotent;
To
love, and bear; to hope till Hope creates
From
its own wreck the thing it contemplates;
Neither to change, nor falter, nor repent;
This,
like thy glory, Titan, is to be
Good,
great and joyous, beautiful and free;
This
is alone Life, Joy, Empire, and Victory.
The play is an allegory that represents the liberation
of mankind, symbolized by Prometheus, from the evil that mankind itself creates
by mistake, symbolized by Jupiter. The most important event that leads to the
liberation is Prometheus’s forgiveness in the first act, that shows that the
Titan is now free from hate. Jupiter also represents all religions, that are
false and oppressive. Demogorgon is the real God, that doesn’t require any form
of devotion or submission: as a matter of fact he doesn’t take Jupiter’s place,
but he just drags him into an abyss.
L'INTERPRETAZIONE DI NIETZSCHE NE LA NASCITA DELLA TRAGEDIA
Il filosofo tedesco
Friedrich Wilhelm Nietzsche, nell’opera La
nascita della tragedia greca, dà un interpretazione del Prometeo incatenato molto diversa da
quella che ho anteriormente illustrato. Egli infatti la considera un “inno
all’empietà”, una celebrazione del “santo crimine” che l’uomo è costretto a
compiere per innalzarsi dalla propria condizione ferina e dare vita alla
civiltà, senza preoccuparsi della totale incongruenza di una tale ideologia con
la poetica eschilea. Al “santo crimine” di Prometeo, attivamente e
consapevolmente voluto, contrappone l’Edipo sofocleo, eroe della “colpa subita”
inconsapevolmente e contro la propria volontà.
Viene anche instaurata
una contrapposizione con il mito del peccato originale contenuto nella Genesi. Prometeo rappresenta il crimine
ariano, compiuto scientemente da un maschio, che fa progredire la civiltà,
sintetizzabile nella triade attività-mascolino-progresso. Il peccato originale,
al contrario, è compiuto dalla donna che viene imbrogliata da Satana e causa la
decadenza del genere umano; pertanto, esso esemplifica la concezione semitica
di peccato come passività-femminino-caduta.
Nietzsche afferma anche
che Prometeo è una figura a metà tra apollineo e dionisiaco: egli infatti
supera dionisiacamente i limiti imposti dalla divinità, ma lo fa con un intento
civilizzatore apollineo.
IL
PROMETEO MAL INCATENATO DI GIDE
Nel 1899 André Gide
pubblicò un breve libello intitolato Prometeo
mal incatenato. In tale opera la vicenda mitica subisce un brusco
abbassamento determinato dalla trasposizione in epoca moderna. Così Zeus è un
ricchissimo banchiere che deve alla sua posizione economica, oltre che al suo
spirito arguto, la possibilità di vivere in modo spensierato a proprio
arbitrio. Il grande gesto filantropico del furto del fuoco e la successiva pena
si trasformano rispettivamente in fabbricazione abusiva di fiammiferi e
conseguente carcerazione.
Il nucleo tematico
centrale dell’opera è la teorizzazione e l’esaltazione dell’action absolument gratuite, ossia un
atto disinteressato, totalmente libero perché non motivato da niente e privo di
ogni finalità. Tale atto è però realizzabile solo da Zeus e non da
Prometeo-umanità, che è condizionato dalla coscienza, simboleggiata dall’aquila
torturatrice.
BIBLIOGRAFIA
P.
BRUNEL, Dizionario dei miti letterari,
Edizioni Tascabili Bompiani, Bergamo 2004
G.
FERRARO, Il Prometeo incatenato – il mito
di Prometeo tra antichi e moderni Tomo II, Edizioni Simone per la scuola,
Pozzuoli 2000
R. ROSSI
– U.C. GALLICI – G. VALLARINO – A. PORCELLI, Ἐλληνικά – letteratura, testi, cultura greca vol. 1A – L’età arcaica,
Edizioni Paravia, Varese 2005
R. ROSSI
– U.C. GALLICI – G. VALLARINO – M. FADDA - A. PORCELLI, Ἐλληνικά – letteratura, testi, cultura greca vol. 2A – L’età classica,
Edizioni Paravia, Varese 2005
ESIODO, Opere e giorni, Edizioni Garzanti,
Milano 1985
P. B. SHELLEY, Prometeo
Liberato, G. C. Sansoni editore, Firenze 1924
A. GIDE, Prometeo
male incatenato, Edizioni La vita felice, Milano 2012
SITOGRAFIA
http://www.classicitaliani.it/boccaccio/prosa/Genealogia%201.htm
http://www.miti3000.it/mito/biblio/eschilo/prometeo.htm
http://digilander.libero.it/ilcrepuscolodeglidei/testi/greci/Esiodo%20-%20Teogonia.pdf
http://www.miti3000.it/mito/biblio/esiodo/opere.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Genealogie_deorum_gentilium
http://en.wikipedia.org/wiki/Genealogia_Deorum_Gentilium